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venerdì 7 settembre 2012

Preview: "La cugina americana" di Francesca Segal. Incipit, intervista, book trailer

La passione, la tentazione, la fedeltà alle scelte:
una storia d’amore nella Londra contemporanea
...

Un romanzo d’esordio che ha tutta la grazia, l’ironia
e la saggezza delle opere di Edith Wharton, Jane Austen ed Elizabeth von Arnim.


 




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La cugina americana
di Francesca Segal
Pagine 340
Prezzo 17,50 €
Bollati Boringhieri
Già disponibile
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Hampstead Garden, nordovest di Londra, è il quartiere della buona borghesia ebraica, ricca, istruita, liberal, solidale: tutti conoscono tutti, tutti frequentano tutti, tutti sono pronti a soccorrere chiunque si trovi in difficoltà.
Adam e Rachel si conoscono da sempre, si amano dall’adolescenza, e stanno per fidanzarsi. La comunità segue l’evolversi della relazione da quando è nata, aspetta il matrimonio, i figli. Tutto va come dovrebbe andare fino a quando, da New York, città di liberi costumi e strane usanze, arriva Ellie, la cugina di Rachel: bellissima, fragile, dolce, infelice, anticonformista. Ellie è una sopravvissuta, come tanti dei membri anziani della comunità: non ai campi di concentramento, ma alla morte della madre in un attentato terroristico in Israele, e alla conseguente decisione del padre di vagare per il mondo portando la piccola con sé.
Tra Adam ed Ellie è amore al primo sguardo. Entrambi resistono, si evitano, si cercano, irresistibilmente attratti e irrimediabilmente divisi. Fino a quando Adam, avvocato nello studio del padre di Rachel, viene incaricato di risolvere la situazione incresciosa, pericolosa, che Ellie si è lasciata alle spalle a New York. I due sono costretti a incontrarsi, per lavoro, fino a quando una malattia di Ziva, la nonna di Ellie e Rachel, fornisce ai due innamorati impossibili l’occasione di infrangere le regole.
Nel romanzo di Edith Wharton che l’autrice prende esplicitamente a modello, L’età dell’innocenza, la comunità dalle regole ferree è la New York di fine Ottocento e la società disinvolta quella dell’Europa aristocratica. Francesca Segal rovescia le tavole e ci regala un delizioso romanzo ricco di suspense e venato di ironia: suspense per l’evoluzione dell’amore proibito, e tenera, indulgente ironia per le usanze e le regole della comunità ristretta, descritta con una profusione di particolari che impedisce di staccare gli occhi dalla pagina.  
 «Un romanzo pieno di momenti indimenticabili».
Publishers Weekly

Il book trailer:

Incipit:

Per l’occasione, Adam aveva comprato un abito nuovo. A lungo indeciso fra un elegante doppiopetto nero gessato e un più tradizionale due bottoni di lana blu navy, dopo un attento esame aveva scelto il completo blu. Sembrava più adatto a un uomo che si era appena fidanzato. E adesso, in sinagoga con indosso l’abito, stava esaminando le vetrate istoriate che proiettavano una luce screziata, di un rosa chiaro e uno zaffiro ancora più tenue, sui volti imbellettati nella galleria delle donne. Le vetrate erano tre – un candelabro dorato con fiammelle rosse per la festa di Chanukkà; un arcobaleno in un cielo cobalto, con bianche colombe piombate che scendevano in picchiata sotto la volta; e una terza vetrata con palme verde acido a incorniciare le due tavole argentee e smussate del Decalogo, sovrastate da uno sprazzo di sole arancio e limone. Sotto quest’ultima, Rachel Gilbert, seduta tra la madre e la nonna, guardava assorta il pulpito. A quel punto lo sguardo di Adam abbandonò le vetrate e si posò su di lei. Stavano insieme da quando avevano sedici anni – dodici anni l’estate appena passata. Per dodici anni era stata la sua ragazza, e adesso, da una settimana, era la sua fidanzata. Ed era tutto diverso. Non avrebbe mai potuto presagire il cambiamento profondo e indescrivibile che era scattato in lui quando aveva visto brillare all’esile dito di Rachel l’anello per il quale si era a lungo tormentato. Era qualcosa che andava oltre il possesso, l’unione, l’amore. Era fiducia assoluta. Era certezza, e la promessa che questa certezza sarebbe stata per sempre. Accanto a lui, Jasper Cohen si mosse all’improvviso, spostando il peso sotto le pieghe dello scialle bianco da preghiera. «C’è la cugina di Rachel». Gli diede una gomitata secca tra le costole e fece un cenno verso la balconata dove le donne della famiglia Gilbert erano schierate su una panca di mogano, le acconciature impeccabili e l’espressione contemplativa. La madre di Rachel, Jaffa Gilbert, era la più vicina al rabbino; un berretto verde celava i capelli corti tinti con l’henné, e gli occhiali dalla montatura rossa con la catenella di plastica giacevano sul balconcino vellutato dell’ampio petto. Accanto a lei Rachel, contegnosa nell’abito di seta antracite a collo alto, aveva gli occhi fissi sulle mani, il viso in parte nascosto dalla fluente cascata di capelli scuri. La nonna di Rachel, Ziva Schneider, sedeva sull’altro lato e scrutava il testo adagiato in grembo con una smorfia di concentrazione, o di scetticismo. E poi c’era la cugina, Ellie Schneider.
«E allora?»
«Non mi avevi detto che era tornata da New York».
«Non sapevo che ti interessasse».
«Sapere che una modella si presenterà mezza nuda alla shul mi interessa eccome». Jasper si sporse oltre Adam per vedere meglio. «Dio, quanto è alta. Serve la scala per arrivarci».
«Supera il metro e ottanta».
«Troppo alta per me. Tu potresti gestirla».
Jasper sfogliò un paio di pagine del libro delle preghiere senza guardarle.
«Cosa stiamo aspettando a procurarci quel film porno che ha fatto?»
«È un film d’essai» sibilò Adam. Da tempo aveva fatto il callo all’indelicatezza di Jasper, eppure in quell’occasione si allarmò. Le voci che circolavano sul conto di Ellie Schneider non erano affar suo, ma non voleva che la congregazione considerasse la cugina della sua fidanzata una pornostar. Jasper sbuffò rumorosamente. Tutto quello che faceva era rumoroso. Non era abbastanza sicuro di sé da credere che qualcuno gli avrebbe prestato attenzione se non si fosse reso ineludibile.
«Un porno d’essai, forse. Ho visto qualche spezzone su YouTube, amico. È roba spinta. Dobbiamo ordinarlo».
«No». «No non è un porno, o no non dovremmo ordinarlo? Gideon ha detto che hanno censurato mezz’ora della versione finale, ma negli Stati Uniti quella integrale si trova ancora». «Non l’ha detto Gideon, l’ho detto io. Rachel ci è rimasta male». «Be’ in ogni modo, se la Columbia l’ha sbattuta fuori per questo vuol dire che c’è qualcosa che vale la pena vedere». «Ssst» tagliò corto Adam aggrottando la fronte. E non era il solo, notò. Di norma gli uomini nelle ultime file erano autorizzati, anzi incoraggiati a sostenere conversazioni a bassa voce, a patto che il contenuto fosse di un certo interesse per quanti erano in ascolto. Il calcio, in particolare, era uno degli argomenti prediletti. Nei Giorni del Pentimento le funzioni si protraevano, comprensibile che la gente cercasse un diversivo. Ma intavolare una discussione sulla pornografia durante il Kol nidrè – l’inizio dello Yom Kippur, e un incanto spirituale non indifferente – era una sfida all’umana indulgenza.

La congregazione avrebbe osservato il digiuno fino al tramonto del giorno seguente; doveva essere un momento di espiazione.

 
The Innocents
cover originale

L'intervista:

Che cosa ti ha affascinato della storia dell’Età dell’innocenza?
Non avevo intenzione di riscrivere un classico, l’idea mi è venuta, del tutto per caso, quando, qualche anno fa, mi sono trasferita da Londra a New York. Ho cominciato a fare quel che faccio sempre quando mi trovo in una città nuova: leggere quanto più possibile di quel luogo. Così mi sono immersa nei classici newyorchesi: tutto Henry James, poi Edith Wharton e quindi, naturalmente, L’età dell’innocenza. Forse perché, ormai lontana da Londra da circa sei mesi, avevo avuto tempo per riflettere, non appena lessi quella stupenda scena d’inizio, con il pubblico all’opera più interessato a spettegolare che ad ascoltare l’aria del Faust, pensai «Proprio come in sinagoga!» A quel punto l’impulso a scriverne era già irrefrenabile.

Puoi spiegarci perché hai scelto la citazione da Edith Wharton: «Nella rotazione delle messi esisteva una stagione precisa per l’avena selvatica: ma non veniva seminata più di una volta».
Adoro quella frase. Credo che interpreti tutte le costrizioni e le ipocrisie dell’alta società newyorchese di quell’epoca. Un po’ di gioco amoroso da parte dell’uomo era messo in conto, ma sarebbe stata una catastrofe se l’avesse fatto una donna. E comunque c’era un limite per tutti, ogni libertà permessa era circoscritta e regolata. Ti diverti un po’ – pochissimo – poi ti sposi e fai esattamente quel che ci si attende da te. Che claustrofobia!

Le prime recensioni al tuo libro parlano spesso di «pagine piene di saggezza». Ma dove ritieni che stia la saggezza in questa storia?
Chissà se sono davvero saggia, almeno un po’! Credo – spero – che i recensori abbiano notato una certa sincerità nel descrivere cos’è un rapporto d’amore; con i conflitti e le ambiguità che necessariamente accompagnano la scelta di condividere una vita intera con un’altra persona.

E dunque l’amore è sempre difficile, complesso?
Non credo che l’amore sia sempre difficile. Anzi, innamorarsi è spesso facile, accade senza troppo sforzo. Non bisognerebbe lottare per stare bene con qualcuno a tutti i costi. Ma complesso sì, credo che l’amore sia una faccenda molto complessa. Una storia vera, che abbia la forza e la profondità di durare tutta una vita, è per definizione complessa.

l'autrice
Londra-New York, due mondi diversissimi. Per tua esperienza, qual è la maggiore differenza nelle relazioni d’amore?
Non saprei dire per quanto riguarda una vera, seria relazione d’amore, ma ritengo, vedendo le mie amiche americane, che il dating newyorchese sia una pratica terrificante. A Londra, è sottinteso che se un uomo ti porta fuori a cena – anche soltanto a cena – non porti a cena un’altra la sera successiva. Si passa del tempo con una persona alla volta, ci si conosce, e ci si aspetta una certa esclusività anche prima che la relazione diventi intima. Per me è inconcepibile che un uomo ti inviti a passare il week end con lui e, se non si è dichiarato esplicitamente, inviti qualcun’altra il week end successivo! Lo trovo un modo di fare troppo stressante, mi fa sentire a disagio. In questo sono all’antica.

Anche tuo padre era scrittore (Erich Segal, l’autore di Love Story, n.d.r.). Quale, tra i suoi insegnamenti, ti è più caro?
Tutti, davvero, adesso che non è più qui con me. Darei qualunque cosa per poter fare ancora una chiacchierata con lui sulla scrittura. Ma immagino di essergli particolarmente grata per le basi che mi ha dato. Mi ha insegnato ad amare il linguaggio fi n da piccolissima; prima di addormentarmi, mi leggeva le poesie di Ogden Nash, e.e. cummings, Poe, scrittori più adatti a un pubblico adulto ma con un ritmo e un senso dell’umorismo che incantano i bambini. E mi ha insegnato a guardare ai classici come punti di riferimento. E che bisogna abbassare la testa e lavorare, sempre – ripeteva spesso la tipica frase di Brooklyn shake ass, come dire, muovi il ...!
Francesca Segal collabora come giornalista e critico letterario a numerose testate tra cui «Granta», «The Guardian», «The Observer», «The Daily Telegraph», «Financial Times Magazine», «The Tatler» e «The Jewish Chronicle». Per tre anni ha tenuto la rubrica dell’«Observer» dedicata alla narrativa d’esordio. La cugina americana è il suo primo romanzo. 

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